Dilatato Corde 3:1
January - June, 2013
Yahya Sergio Yahe Pallavicini
Yahya Sergio Yahe Pallavicini

IL SUFISMO
SECONDO YAHYA SERGIO YAHE PALLAVICINI

È legittimo parlare di monachesimo all'interno dell'islam e fino a che punto il sufismo può interpretare questo ruolo?
A questa domanda è facile rispondere in termini negativi. Esiste un riferimento dottrinale islamico: “Non c'è monachesimo (rahbaniyya) nell'Islam”. Non esiste cioè un corrispettivo della struttura organizzativa né dell'impianto dottrinale del monachesimo almeno nel cristianesimo cattolico che possa essere associato a strutture equivalenti nell'islam. Le due sfere potrebbero cominciare ad avvicinarsi se pensiamo agli ordini contemplativi nel cristianesimo ortodosso e alla struttura gerarchica stabilita da alcuni suoi maestri, che non hanno mai disdegnato l'interpretazione di una concentrazione spirituale, una vocazione di carattere interiore e il ritiro da alcune contingenze esteriori, senza però che ciò si scontrasse con la loro condizione, con l'essere padri di famiglia e cittadini impegnati nel sociale o nella “polis”, nel senso più nobile del termine.

Se dovessimo quindi declinare il concetto di monachesimo secondo la prassi prevalente in alcuni ordini monastici del cristianesimo cattolico e cioè come ritiro da funzioni di responsabilità esteriore e immanente, non troveremmo un corrispettivo nell'islam; anzi, secondo i maestri, si tratterebbe di un “artificio”. Se invece consideriamo semplicemente la vita contemplativa, questa rappresenta il cardine dell'islam e senza dubbio le strutture preposte a tale aspirazione sono le confraternite del tasawwuf, del sufismo, gli ordini iniziatici, le scuole tradizionali delle turuq che consentono, secondo metodi diversi e maestri giustamente differenti, la soddisfazione di una vocazione alla vita contemplativa. Quest'ultima, peraltro, non comporta mai un ritiro, ma solo un riorientamento anche delle funzioni esteriori. In altre parole, ciò che prevale è la finalità dell'intenzione, che è la conoscenza di Dio, la santità piena, la partecipazione e la permanenza nella beatitudine della presenza spirituale. Le turuq sono le vie di questa disciplina interiore. I metodi sono vari, ma nessuno di questi metodi arriva al ritiro dalle responsabilità del mondo esteriore, compresa la vita famigliare. Per finire con questa necessaria precisazione, il monachesimo nel cristianesimo cattolico è a volte sinonimo di un metodo vicino al misticismo mentre noi preferiamo, conformemente agli insegnamenti di alcuni maestri, distinguere e precisare che il misticismo è parte integrante della sfera religiosa ordinaria, dove si caratterizza soltanto per la particolare l'intensità.

Negli ordini contemplativi dell'islam, le turuq, il tasawwuf è parte integrante della vita religiosa, ma ha come prospettiva quella di concentrarsi su una dimensione di estinzione dell'io e non soltanto di purificazione. Questo relativamente all'io. Relativamente a Dio, la finalità non è soltanto la salvezza ma per così dire l'identificazione. Se il primo è un cammino religioso all'interno del quale c'è anche una passione mistica, nel secondo, almeno per quanto concerne l'islam, la via contemplativa ha un carattere che prescinde dalla passione (ci deve essere estinzione dell'io), prescinde dal ritiro (non è monacale), e consiste nella possibilità di soddisfare delle vocazioni originarie che hanno come finalità l'interpretazione diretta e attiva dell'ordine divino. Non è più interpretazione “passiva” e questo è ciò che, secondo alcune categorie dottrinali, fa la differenza tra exoterismo e esoterismo. Gli ordini contemplativi nell'islam fanno parte dell'esoterismo, ma si collocano all'interno della regola, della sharî'ah ecioè del diritto islamico, della religione dell'islam. Non è qualcosa che sta al di fuori dell'islam, ma una dimensione in cui prevale la concentrazione interiore sull'esteriore, mentre la dimensione esteriore, religiosa, exoterica o giuridica, disciplina la norma che permette alle creature di rivolgersi al proprio Creatore, purificando e arginando le possibilità negative e ottenendo nel travaglio della vita il beneficio di una vittoria che coincide con la salvezza dell'anima.

Qual è il rapporto tra islam e sufismo?
Non tutto l'islam è sufi, ma viceversa tutto il sufismo è nell'islam. Questa verità è molto importante. Tutti i sufi ortodossi devono rispettare le regole basilari dell'islam. Chi percorre la via del sufismo, se non rispetta le regole della religione, è un eterodosso. Quindi non tutti i musulmani possono essere sufi, ed in effetti si tratta di una minoranza, ma tutti i sufi devono essere musulmani. Questo è fuori di dubbio e per noi, sulla base di ciò che i nostri maestri ci hanno insegnato, è una regola assolutamente imprescindibile. Tutti i maestri del sufismo si basano sull'impianto della regola islamica. In tal senso, entrando nell'ambito delle religioni comparate, si potrebbe dire che non è possibile praticare lo yoga senza essere indù, lo zen senza essere buddisti; allo stesso modo, non è possibile praticare il sufismo senza essere musulmani. Detto altrimenti: se vuoi essere un buon sufi devi essere un ottimo musulmano. La dimensione interiore non può prescindere dall'esteriore perché altrimenti incappiamo nell'eterodossia, in un uso ambiguo e irregolare delle regole del sufismo e rischiamo di scadere nella banalità della New Age o, peggio ancora, in quello che in Occidente è divenuto una sorta di occultismo, il sufismo come culto delle scienze esoteriche. Questo rischio è ben presente nel mondo attuale, e nell'islam è stigmatizzato come una deriva molto pericolosa.

Il sufismo è la via contemplativa dell'islam. Ma nell'islam la vita contemplativa è appannaggio del sufismo?
È caratteristica del sufismo avere i mezzi per soddisfare le esigenze dei fedeli musulmani non appagati altrove dalla vita religiosa ordinaria. Tali fedeli vogliono disporsi al passaggio dal beneficio di un metodo “passivo” a quello di un metodo “attivo” e questo è possibile soltanto all'interno del sufismo, grazie agli insegnamenti interiori del profeta Muhammad, insegnamenti impartiti ad una cerchia più ristretta dei suoi compagni, i “compagni della panca”. A Medina c'erano molti compagni del Profeta, alcuni dei quali votati a una vita contemplativa. Perciò, senza dubbio, non c'è nell'islam una possibilità di conoscenza divina nel senso pieno, integrale e profondo del termine se non nel sufismo. Fuori dal sufismo, c'è una salvezza piena, c'è una “competenza” piena, ma la via interiore nell'islam coincide con la via del tasawwuf, che è presente sia nell'islam sunnita che in quello sciita.

In cosa consiste il dhikr e quale è il suo posto nella preghiera? Esiste nel sufismo una distinzione tra “salmodia” e “preghiera”?
C'è una distinzione all'interno della religione islamica tra duʿāʾe ṣalāt, dove la prima è l'orazione volontaria, mentre la seconda è la preghiera rituale prescritta e obbligatoria. Ogni musulmano, e di conseguenza ogni persona che percorre la via del sufismo, deve rispettare il precetto di compiere le cinque preghiere rituali quotidiane. A queste può aggiungere delle invocazioni, duʿāʾin arabo, delle orazioni. Per cui esiste già all'interno della sfera religiosa islamica di ogni buon fedele questa differenza: un'invocazione più legata a un momento di trasporto, di richiesta, di particolare necessità e poi la spersonalizzazione della richiesta nella fedele realizzazione della preghiera rituale canonica. Anche per coloro che partecipano a una vita contemplativa è obbligatorio mantenere questo riferimento, non soltanto però per obbedienza. Certo, anche per obbedienza, ma soprattutto perché se sono fedeli al loro orientamento spirituale sapranno senz'altro rispettare il fatto che la preghiera è un mezzo di comunicazione, il mezzo con cui il fedele entra in comunione con Dio e riceve da Dio quelle influenze spirituali che gli consentono un maggior stato di grazia, più puro e meglio orientato. Detto questo, all'interno del sufismo ci sono delle ritualità interiori che rappresentano il corrispettivo delle ritualità esteriori. In termini arabi, il primo e il principale è il dhikr, il secondo è il wird. Dhikr è ripetizione, invocazione e memoria, la memoria di Dio, il ricordo di Dio, la ripetizione della Sua memoria. All'interno dell'islam e delle confraternite del sufismo, il rito centrale è il dhikr-Allah, la menzione del ricordo di Allah. Viene fatta invocando il Suo nome per eccellenza che, secondo gli insegnamenti dei maestri e del Profeta, è Allah. Quindi il dhikr-Allah non è altro che la ripetizione, secondo tecniche, numeri e situazioni prescritte dai maestri e dalle regole delle varie confraternite, del Nome supremo. Al di fuori di questo dhikr, ci sono altri dhikr che sono la ripetizione di parti della Rivelazione del Corano oppure di Attributi o Nomi di Dio (per esempio, “O Onnipotente”). A questi dhikr si accompagnano – ed è ciò che principalmente distingue le confraternite da un punto di vista rituale – la menzione di formule ispirate dal maestro fondatore o da un santo musulmano, delle preghiere che egli vi ha aggiunto. L'insieme unitario di queste preghiere - dhikr-Allah, dhikr, wird – si aggiunge alle preghiere canoniche del fedele musulmano.

Tutte queste pratiche non sono solo tecniche ma mezzi, come dicevamo prima, di comunicazione con l'influenza spirituale. L'intenzione di un membro di un ordine contemplativo islamico è quella di pregare sia con le preghiere canoniche sia con le invocazioni, secondo una sempre maggiore penetrazione della realtà divina. C'è qui una differenza abbastanza rilevante rispetto al fedele ordinario, che pregherà per obbedienza nella speranza di essere una persona migliore. Questo  rappresenta già un ottimo risultato, sia chiaro. Ma da un punto di vista interiore, i membri di un ordine contemplativo cercano di “gustare” - utilizzando una terminologia tipica del tasawwuf - il loro Signore, di conoscere il gusto di Dio cui si arriva indiscutibilmente anche attraverso la preghiera canonica, alla quale si accompagnano altri metodi che danno delle chiavi di accesso e di lettura della realtà divina che si svela. La preghiera è la messa in pratica di un simbolo agito. La preghiera è un simbolo, sia quella canonica che quella integrativa. Ma bisogna metterla in pratica. La messa in pratica di questo simbolo permette l'accesso alle influenze spirituali. La finalità non è quella di nominare il Nome di Dio tante volte, ma di penetrare il Nominato. Così come c'è il simbolo e il simboleggiato e la richiesta è di passare dall'uno all'altro, allo stesso modo c'è il nominare Dio per scoprire il Nominato, l'unica realtà che è la realtà di Allah.

Ci possono essere ulteriori distinzioni nella pratica del dhikr (privato/pubblico, silente/verbale, dhikr del cuore/dhikr del segreto), dovute alle differenze di metodo. Ci sono delle turuq, come la Naqshbandiyya, in cui prevale, relativamente all'interpretazione dei maestri di quella specifica confraternita, il dhikr silenzioso. In altre confraternite non esiste questa pratica, la ritualità interiore viene fatta in maniera sonora. Lo stesso vale per la distinzione tra dhikr-al-qalb (“dhikr del cuore”) e dhikr-al-sirr (“dhikr del segreto”): anche questi derivano dagli insegnamenti di alcuni maestri che hanno trasmesso il beneficio di una possibile classificazione nella previsione concettuale di ciò che può succedere nel percorso degli svelamenti dei misteri: prima si giunge alla stazione del cuore, poi alla penetrazione del mistero o del segreto più interiore. Il rischio è che però, nel campo della dimensione interiore e contemplativa, queste indicazioni non siano solo degli orientamenti per procedere nella conoscenza dell'Assoluto, ma dei “segnaposti” per verificare il proprio stadio di avanzamento, scoprendo magari alla fine che, giunti per esempio al “dhikr del cuore”, non vi si trova ciò che ci si aspettava di trovare.

È possibile o sensato parlare di “ascesi” nel sufismo? Sarebbe disposto a tradurla nella parola jihâd?

C'è ascesi se consideriamo precisamente il suo significato e non la sua applicazione nell'immaginario collettivo del monachesimo cristiano cattolico. Il suo significato ha a che fare con l'“ascensione”, con il movimento – usando un termine a me più caro – di “elevazione”. La tendenza dei membri di un ordine contemplativo islamico è quella di cercare di andare al di sopra di se stessi, di elevarsi, di superarsi, di estinguersi, di venire riassorbiti dalle realtà superiori. In questo senso, c'è una progressiva e auspicabile “ascensione”. E sempre nello stesso senso, l'ascesi può essere associata in parte ad alcuni significati del termine jihâd: non certo nella valenza di guerra santa, nel senso battagliero e militare di tutte le interpretazioni decadute e degenerate che purtroppo abbiamo dovuto sopportare, ma nel senso etimologico di “guerra interiore”, di “sforzo interiore”, sforzo che è veramente “santo” perché prevede il definitivo azzeramento delle possibilità negative e la definitiva e irreversibile vittoria del Bene sul male. In questi termini, cioè in termini “ascensionali”, l'elevazione prevede anche il superamento progressivo del dilemma tra bene e male: a un certo punto c'è soltanto Dio e se c'è soltanto Dio c'è soltanto il progressivo cammino di superamento alla scoperta di vari gradi e livelli della Sua realtà infinita. Questa elevazione non è possibile senza sforzo: lo sforzo iniziale è quello di superare se stessi, anche le possibilità negative latenti in ogni persona decaduta; in seguito, lo sforzo consiste nel superare ulteriori livelli, tendere a un'elevazione costante, a uno sforzo costante, diverso da quello che siamo soliti pensare rifuggendo la tentazione di sentirsi soddisfatti, perché Dio è più grande, Dio è superiore. Uno sforzo di superamento delle soddisfazioni relative, finché poi alla fine la persona è “distaccata”, ha superato qualsiasi possibile attaccamento e immedesimazione personale. Alla fine c'è soltanto il movimento dinamico di Dio che attrae a Sè. Lo sforzo lì si annienta, il jihâd si compie, diventa soltanto santità e l'ascesi si esaurisce perché c'è soltanto pienezza.

Tornando alla sua domanda, direi che “ascesi” e “jihâd” possono essere collegate. Tuttavia, schematicamente, il jihâd è sia orizzontale che verticale e fa indiscutibilmente riferimento, nella dottrina dei maestri, al viaggio celeste del Profeta, da vivo, di notte. Il Profeta, durante la sua vita, mentre era già stato chiamato alla sua funzione di Inviato divino, compie un viaggio orizzontale da La Mecca a Gerusalemme. La dimensione del viaggio è interiore. Si manifesta questo viaggio quando la realtà è quasi riassorbita nel non manifestato, e la luce è soltanto una luce interiore, quella che guida il viaggio del Profeta, un viaggio nell'oscurità della notte. Poi, da Gerusalemme, il Profeta sale fino alla visione del volto di Dio a una distanza di “due archi” (e “meno ancora”, specifica il Corano), in prossimità di Dio. Questo è esattamente, secondo l'insegnamento dei maestri, il modello del viaggio esteriore-religioso e contemplativo-ascetico. Tale viaggio rappresenta un riferimento dottrinale specifico riferito sia nel Corano che nelle tradizioni relative alla vita del Profeta. È il paradigma dell'“ascesi” e del jihâd. In un libro pubblicato l'anno scorso per Einaudi e curato da Ida Zilio-Grandi, c'è un capitolo dedicato proprio al viaggio celeste del Profeta. (Il riferimento esatto e completo è: Ibn Abbas, Il viaggio notturno e l'ascensione del profeta nel racconto di Ibn 'Abbas, a cura di Ida Zilio-Grandi, prefazione di Cesare Segre, postfazione di Maria Piccoli, Torino, Einaudi, 2010).

Il termine silsilah è centrale per indicare il “seguito”, la “concatenazione” nell'ordine storico della discendenza genealogica. Silsilah potrebbe stare per la “tradizione” di ascendenza monastica?
Prima di rispondere, ho due problemi di ordine metodologico. L'abbiamo già detto all'inizio: mi è sempre difficile fare il parallelismo con il monachesimo perché in effetti tale parallelismo non c'è. In aggiunta, purtroppo, ignoro in gran parte la realtà delle regole monastiche e non saprei rispondere se il termine silsilah abbia esattamente il proprio corrispettivo nel termine tradizione. Tendenzialmente direi di no. Ci potrebbero essere delle similitudini che però non so approfondire.

In linea generale, la definizione di silsilah è corretta: silsilah è “catena di ritrasmissione”. Attenzione però: di cosa? Senz'altro di una regola, ma non soltanto. Questo è molto importante. La silsilah, esteriormente, sembra una “catena di ritrasmissione” laddove si parla di una sequela ininterrotta di maestri che si succedono a garantire la continuità di una pratica, di una regola. Tuttavia questa “catena di ritrasmissione” è anche il veicolo di un'influenza spirituale e di un'“autorizzazione”. In altre parole un maestro, anche durante la sua vita, riceve l'ispirazione di delegare o demandare ad un altro, in forma autonoma o accompagnata, l'esercizio della funzione di custodia di alcuni strumenti per la santificazione e la loro ritrasmissione. Perciò, da un lato, è fondamentale potersi riferire a una silsilah benché sia necessaria anche una ijaza, un'autorizzazione. Un maestro dovrebbe poter mostrare la sua “patente di autorizzazione” nella successione ininterrotta dei maestri che danno un'autenticità a questa patente. Non basta insomma avere soltanto il “certificato”.

Fatta salva questa precisazione, è interessante notare che alcune delle confraternite contemplative contemporanee hanno una catena che si è rinnovata per intercessione o mediazione di figure di carattere spirituale. Ci sono dei maestri che hanno avuto un'illuminazione, hanno avuto incontri di carattere metafisico in cui hanno ricevuto delle formule e hanno dato vita a nuovi ordini contemplativi. È il caso per esempio di una tariqah molto diffusa, la Tijaniyya. Lo shaykh Ahmad At-Tijani ha dato il nome alla confraternita Tijaniyya, nata nel secolo scorso e diffusa in tutto il mondo, anche negli USA e soprattutto in Africa (il Senegal è la culla della Tijaniyya, benché il maestro abbia la sua tomba e la sua moschea a Fez, in Marocco). Lo shaykh At-Tijani fa risalire i suoi insegnamenti dottrinali a una catena ininterrotta di maestri, ma ciò che è più importante fa risalire la sua influenza spirituale a un incontro con il Profeta. C'è sempre la necessità di considerare la doppia natura di questa catena iniziatica: una dimensione di discepolato e maestria fondamentali; ma anche la natura stessa della maestria e del discepolato che ha a che fare con la fratellanza con il Profeta. Di fatto, diventiamo confratelli non perché siamo discepoli di quel maestro, ma perché attraverso di lui abbiamo l'aspirazione di diventare fratelli del Profeta. In questo senso, per richiamarsi ad una prospettiva anche cristiana, si tratta di una “fratellanza cristica”. Ed è qualcosa che in fondo distingue tra l'essere fratelli di Gesù e l'essere apostoli di Gesù. A cercare una forma di parallelismo con il cristianesimo, direi che questo è esattamente lo scenario: i grandi giuristi possono essere apostoli dell'islam; i grandi maestri sono potenzialmente fratelli del Profeta.

È stata fatta notare da più parti l'originaria influenza del monachesimo cristiano sulla nascita del sufismo (per esempio nel nome stesso di tasawwuf). Si può anche sostenere il contrario, e cioè che ci sia stata un'influenza del sufismo sul monachesimo cristiano? Avrebbe eventualmente qualche esempio?
Questa domanda è, tra le altre, quella che mi mette un po' più in difficoltà, forse per una scarsa sensibilità personale sul tema. Comunque, tendenzialmente direi di sì, c'è stata un'influenza del monachesimo cristiano sull'islam. Nella vita del Profeta, esiste un incontro nel deserto con il monaco Bahira. È vero poi che le cronache degli storici della vita del Profeta quantomeno descrivono la presenza di monaci eremiti nel deserto, i quali hanno avuto nella loro grande pietà spirituale anche la sensibilità di riconoscere la presenza del Profeta. Questo è un aspetto abbastanza rilevante. Poi, nel corso della storia, i confronti e le contaminazioni (in senso positivo) tra cristiani e musulmani ci sono state e sono state molto proficue. È probabile che possano essersi anche aiutati in un clima di dialogo e confronto. L'unica cosa che non è accettabile è il pensiero che essi, in un certo qual modo, abbiano “copiato” l'uno dall'altro. Credo invece che la Provvidenza si manifesti in modalità differenti e quindi ci sia o ci possa essere stata di volta in volta una componente più islamica o più cristiana nell'incontro. Credo che si siano aiutati, sostenuti, confrontati, a volte anche non compresi. Ma la teoria degli emprunts, il prendere a prestito delle cose... ecco a questo io non credo, credo invece che ci possano essere state, se si crede alle corrispondenze spirituali, delle “naturali” coincidenze.

Aggiungo una nota sull'abito di lana cui lei si è riferito. Secondo alcune interpretazioni, il tasawwuf  è la via di coloro che vestono un abito di lana, “suf”, nel senso più tecnico del termine. E trovo interessante ciò che lei dice circa l'importanza di “vestire l'abito” in occasione dell'investitura monastica del monaco. Però, se questo scenario viene trasferito alla questione dell'abito di lana per gli appartenenti degli ordini contemplativi, ci si scontra nuovamente con l'impossibilità di trovare uno stretto corrispettivo. Una delle regole di ispirazione per la persona che entra in un ordine contemplativo islamico è quella di poter seguire la “via dell'ammantellato”, che fa ancora una volta riferimento al Profeta. È il Profeta che è stato ricoperto da un mantello. Per cui il mantello del sufi è un mantello che ripristina un'antica costrizione a cui il Profeta è stato sottoposto dagli angeli. Il Profeta è stato costretto dagli angeli ad aprirsi alla scoperta della Rivelazione, alla lettura del Corano. All'interno del Corano, scopre di essere “Uomo avvolto nel mantello”. Questa doppia condizione di costrizione e avvolgimento è simbolicamente riproposta nel momento in cui la persona entra a far parte di un ordine contemplativo islamico, momento in cui può ricevere un mantello che può essere occasionalmente di lana e che comunque ricopre sempre il suo abito. Per questo secondo me non c'è corrispettivo tra abito monastico e abito della persona dell'ordine contemplativo islamico: questi un abito deve già averlo, l'iniziato non può prescinderne. Egli viene rivestito da qualcosa che “riveste ed esaurisce” il suo abito ordinario: è un rivestimento in più per venire meno a se stesso.

Può chiarire la figura e il ruolo dello shaykh all'interno di una confraternita religiosa sufi? È paragonabile alla figura dell'“abate”? Qual è il valore dell'obbedienza nei confronti dello shaykh?
In principio il discepolo di un maestro ha un vincolo di obbedienza e potremmo dire che è un'obbedienza totale. La sottomissione assoluta, tuttavia, non può essere nei confronti del maestro, ma solo nei confronti di Dio, perché altrimenti corriamo il rischio di idealizzare il maestro facendone una divinità o un idolo. Questa è una regola molto importante: c'è un'obbedienza totale al maestro, allo shaykh, ma la sottomissione assoluta è soltanto verso Dio.

Per ciò che concerne le proprietà materiali, direi che una caratteristica fondamentale e comune a tutti gli ordini contemplativi nell'islam è ciò che è il voto di povertà per il cristianesimo. Sinonimo di “appartenente al tasawwuf” è anche “faqîr”, letteralmente “povero”. Il “povero nello Spirito” si dispone e si impegna a concentrare ogni mezzo per la santità, allo scopo di raggiungere la conoscenza spirituale e integrale di Dio. Qui però, a differenza dell'interpretazione di alcuni ordini monastici di cui peraltro ho poca conoscenza, non c'è la deresponsabilizzazione delle sue proprietà. È un povero che si deve abbandonare e che si deve lasciare guidare da uno strumento che è il maestro attraverso un progressivo processo di conoscenza interiore, mantenendo però, seppure in forma guidata o mediata, la responsabilità del proprio corpo e delle sue proprietà e delle obbedienze legali che la sua religione gli impone. Non è colpa del maestro se egli si ammala o gestisce male le sue proprietà o se interpreta la vita interiore come una deresponsabilizzazione nei confronti della società, del lavoro o della famiglia. Invece ogni cosa, le proprietà, la salute, la famiglia, il lavoro, l'impegno pubblico esteriore dovrebbero essere completamente riassorbiti in un'intenzione che è coerente al nuovo statuto di quell'uomo e di quella donna, che è l'essere discepoli di quel maestro per la finalità cui serve anche il maestro stesso, cioè la conoscenza di Dio. La gestione è sempre “relativamente personale”. Non passano “in gestione” al maestro le proprietà, la famiglia o se stesso in termini fisici o corporali. Non si ripropone cioè ciò che accade, se non sbaglio, in alcune sette protestanti. C'è invece la necessità di seguire le indicazioni del maestro anche relativamente a una migliore cura del corpo, a una migliore cura delle proprietà, a una migliore cura delle relazioni pubbliche, il tutto secondo le necessità della funzione. C'è un percorso progressivo che viene chiamato tahqiq e in esso non manca la “verificazione” costante e guidata da parte del maestro.

A completamento di questa risposta, direi però che simbolicamente i discepoli sono nei confronti del maestro come i cadaveri nei confronti del lavatore. Simbolicamente, questa è la relazione. Il maestro è un servitore dell'intermediario finale che è il Profeta. Chi alla fine dei tempi farà il mediatore tra i santi e i dannati, tra i buoni e i cattivi? Saranno i capostipiti delle rispettive famiglie comunitarie confessionali. In questo senso, il Profeta, sia come messaggero dell'islam, sia come primo ed unico maestro delle confraternite contemplative, sarà il mediatore e i maestri, proprio perché ricevono da lui l'autorizzazione e il modello, hanno la funzione soltanto di preparare o predisporre a questo incontro. In questo scenario, neanche il maestro può scegliere la natura del cadavere, né la sua morte né lo stato del suo scheletro. Deve soltanto lavare e se saprà lavare bene avrà fatto il suo dovere. Tuttavia il risultato di ciò che accade al cadavere, ancora seguendo questa tradizione, appartiene al giudizio del maestro dei maestri che è il Profeta.

Si è parlato di “confraternite” sufi. Il termine richiama direttamente la fratellanza, un rapporto di fratellanza. Accettando il termine se ne accetta anche la realtà? Vede la parola “confraternita” equivalente a quella di “comunità”?
È un rapporto di fratellanza? Decisamente sì, sia tra uomini e donne che fanno parte di uno stesso ordine contemplativo sia, seppure in forme diverse, tra membri di diverse confraternite contemplative. È lo stesso che dire: pur avendo un corpo di regole più o meno differenti, tutti i monaci, siano benedettini, cistercensi o francescani, hanno una maggiore affinità tra loro rispetto alla fratellanza con tutti gli altri fedeli. Ciò vale anche per le scuole del tasawwuf: i membri degli ordini contemplativi hanno o dovrebbero avere tra loro una particolare affinità, perché comune è l'intenzione che riorienta la loro vita relativamente a una certa finalità. La fratellanza è intesa in questo senso.

Ora, anche i membri di una comunità sono fratelli. Tutti i membri della comunità islamica sono fratelli tra di loro, uomini e donne, siano essi membri di una confraternita contemplativa o meno. Sono due livelli distinti di fratellanza. Ad esempio, sono fratello di Izzedin Elzir (imam della comunità islamica di Firenze) perché siamo insieme ricercatori di una conformità religiosa all'interno degli insegnamenti dell'islam. Cosa ci differenzia? Lui non ha un interesse o una sensibilità particolare per la dimensione contemplativa, mentre io cerco di praticarla e di comprenderla. Questo fa sì che, paradossalmente, io mi senta più vicino agli ordini contemplativi del cristianesimo, perché forse c'è in essi un aspetto devozionale che rende meno seriosi e più attenti alla presenza di Dio, meno eruditi e meno giuristi. E anche meno “passivi”. Ciò non vuol dire che siamo migliori, questo deve essere chiaro. Ci sono persone (“passive”) che sanno essere più pie e più vicine a Dio di coloro che magari hanno frequentato per anni o per decenni un ordine contemplativo nel cristianesimo, nell'ebraismo o nell'islam. La differenza che faccio è soltanto una questione di sfumatura nell'interpretazione della fratellanza.

Termino col dire che, senza nessun sincretismo, “confraternita” e “comunità” possono essere anche sinonimi nel senso di un versetto coranico in cui si dice che “Abramo è una comunità”. Un uomo, il capostipite del monoteismo che fa riferimento al suo insegnamento profetico, è una comunità. Ebrei, cristiani e musulmani che si riconoscono in Abramo fanno parte di una stessa comunità che ha come principio il Dio unico. In questo senso, noi siamo molto attenti a un dialogo, nelle rispettive differenze, tra persone votate alla ricerca spirituale nell'ebraismo, nel cristianesimo e nell'islam; a un “comunitarismo” tra teologi, rabbini, sacerdoti, imam; a un dialogo comunitario più ampio, al più semplice livello dei beati, dei fedeli. Ebrei, cristiani e musulmani possono comunque riconoscersi nella fedeltà alle rispettive specificità confessionali, in una comunità che in Abramo trova un riferimento comune.

A un livello generale, “confraternita” e “comunità” sono perciò sinonimi, per quanto ci sia senza dubbio un'interpretazione diversa data alla parola “comunità” tra ebrei, cristiani e musulmani; così come nell'islam c'è una differenza nell'interpretazione della “comunità” rispetto alla “confraternita”. Finisco con una considerazione più “esteriore”: anche il movimento politico radicale dei Fratelli musulmani si definisce “fratellanza”. Degno di nota è che costoro abbiano come principali nemici proprio i membri delle confraternite sufi. Ciò si spiega con un'interpretazione “moraleggiante” dell'islam che costituisce esattamente l'inversione della visione delle confraternite del sufismo. Queste si basano sì sull'esteriore e sulla “polis”, ma in una prospettiva “ascensionale”, di elevazione spirituale e superamento di se stessi. Mentre tra i Fratelli musulmani c'è una specie di “partigianeria” che è un altro modo di interpretare la fratellanza, con un spostamento valoriale su ciò che è politico, come se fosse il parametro di riferimento per “valutare” le qualità religiose. Al contrario, negli ordini contemplativi la politica non è altro che una base e forse un mezzo per superare se stessi nella trasparenza, non nel protagonismo. È testimonianza spirituale e non propaganda elettorale. Sono sfumature, oso dire, tra maggiore luminosità e maggiore oscurità; si collocano su un altro piano rispetto a quello di cui parlavamo prima, quando sottolineavamo invece sfumature di luce interne allo stesso ambito religioso o affinità tra confraternite di confessioni diverse.

Attached Document or FileLa tarîqa Ahmadiyya Idrîsiyya Shâdhiliyya in Occidente  La via spirituale (tarîqa) o «confraternita contemplativa islamica» condotta dallo Shaykh italiano ‘Abd al-Wâhid Pallavicini.
 
 
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