IL DIALOGO ATTORNO ALLA PAROLA
Questo rapporto è stato publicato originariamente in POPOLI, il mensile internazzionale dei Gesuiti (Novembre 2011, N. 11).
"Da anni sono impegnato nel dialogo con i cristiani perché ritengo sia un dovere che mi deriva dal mio essere musulmano”. Questa affermazione di Mohammad Ali Shomali, rivolta agli altri partecipanti a un seminario ristretto e poi ripetuta con convinzione in occasione di una conferenza pubblica, rende l’idea del clima che si è respirato a metà settembre a Roma, in un’Abazia di Sant’Anselmo non ancora popolata dai suoi numerosi studenti benedettini provenienti da tutto il mondo. Vi erano convenuti undici monaci e monache cristiani (tra i quali, oltre allo scrivente, anche una teologa mennonita oblata di un monastero benedettino olandese) e nove musulmani sciiti, docenti e dottorandi dell’Università di Qom in Iran (tra i quali tre donne).
Il tema generale era “La Parola di Dio ci chiama alla preghiera e alla testimonianza” ed è stato affrontato attraverso sei approcci differenti, ciascuno dei quali introdotto da una relazione a due voci: cristiana e musulmana. Nella prima giornata si è trattato di esaminare il ruolo della Parola di Dio nelle due tradizioni: cosa si intende per “rivelazione” (l’origine divina e la sacralità della Bibbia e del Corano) e cosa comporta il rapporto personale con la Scrittura attraverso la lectio divina o la recitazione di brani del testo sacro. Il secondo giorno ha visto la riflessione concentrarsi sulla risposta del credente alla Parola di Dio attraverso la preghiera: si sono così esaminate forme, modalità ed esperienze relative alla preghiera pubblica o comunitaria e alla preghiera personale. Nell’ultimo giorno la medesima “risposta” alla Parola di Dio è stata letta attraverso la griglia del pensiero e dell’azione: la vita della comunità credente e la sua testimonianza in un mondo secolare sono stati l’oggetto della riflessione dei partecipanti.
A ogni duplice presentazione del tema è seguito un dibattito molto franco che non aveva minimamente lo scopo di giungere ad alcun testo concordato o dichiarazione condivisa ma che, forse proprio per questo, è riuscito a far risuonare con particolare efficacia analogie, assonanze, differenze e sottolineature proprie alle due tradizioni religiose. Del resto, il poter ascoltare alcuni elementi fondamentali dell’esperienza di fede di una tradizione diversa dalla propria non attraverso libri o conoscenze indirette, non con il supporto di luoghi comuni e analogie facili quanto improprie, ma dalla voce e dal vissuto di credenti che cercano di rendere conto della speranza che abita i loro cuori e le loro menti è di per sé un’occasione unica per cogliere particolarità dell’homo religiosus che trascendono le singole religioni e le pratiche conseguenti e, al contempo, per approfondire le specificità proprie al cristianesimo o all’islam.
Il bisogno, per esempio, di coniugare la fede in una verità rivelata e i suoi aspetti trascendenti con una sostenibilità razionale delle proprie convinzioni è un dato che accomuna, al di là di abusati cliché, cristiani e musulmani. Così come la difficile e sempre perfettibile dialettica tra istanze religiose e loro traduzione nei comportamenti quotidiani in una società secolarizzata oppure l’esigenza di un’espressione comunitaria della fede che non può restare relegata nello spazio strettamente individuale sono problematiche che si ritrovano tanto nell’occidente ormai orfano della cristianità quanto in un paese in cui la sharia è tornata a essere legislazione di riferimento anche per la società civile.
Una conferenza pubblica su “La sfida e la promessa del dialogo islamo-cristiano” è stata poi l’occasione da un lato di ripercorrere l’ormai decennale vicenda di dialogo tra sciiti e cristiani in ambito anglosassone – un dialogo che ha prodotto anche testi preziosi sulla dimensione etica della religione nel mondo contemporaneo o sul rapporto teorico e pratico tra fede e ragione – e, d’altro lato, di sottolineare l’importanza del vissuto comune come spazio e tempo propizio per tradurre in realtà quotidiana la riflessione teologica. Non a caso, sia nell’intervento dell’abate benedettino Timothy Wright sia nella replica del prof. Shomali – i due animatori di questi incontri – la coinvolgente e tragica vicenda dei monaci di Tibhirine in Algeria con i loro vicini musulmani e con la confraternita sufi di Médéa è stata rievocata con accenti carichi di speranza. Una testimonianza di vita, quella dei monaci trappisti, resa ancor più eloquente dalla presenza, tra i partecipanti cristiani, di un loro confratello che attualmente vive nel piccolo monastero di Midelt in Marocco dove la testimonianza di Tibhirine ha messo nuove radici.
I pasti presi insieme nel refettorio monastico nel rispetto delle norme alimentari proprie a ciascun gruppo, la sala predisposta per la preghiera dei musulmani e la possibilità di essere presenti gli uni alla preghiera degli altri, la visita al P.I.S.A.I. (il Pontifico istituto di studi arabo-islamici), alla Cappella Sistina e alla basilica di San Pietro, così come lo scambio fraterno su aspetti molto concreti delle rispettive pratiche religiose hanno facilitato il confronto teologico che si è sviluppato nelle tre giornate di discussione.
Segno eloquente di quanto questo dialogo islamo-cristiano non nasca oggi e sia anche il frutto di intuizioni di uomini di Dio che hanno profeticamente dissodato il terreno con sapienza e pazienza, rendendo in tal modo possibile un confronto fino a pochi decenni or sono nemmeno immaginabile, è stato il sostare commosso e raccolto dei membri musulmani di fronte al corpo di papa Giovanni XXIII esposto nella basilica di San Pietro. Teologi sciiti che, anche per semplici ragioni anagrafiche, non hanno mai conosciuto il figlio di contadini bergamaschi divenuto successore di san Pietro, erano tuttavia consapevoli che l’apertura conciliare del decreto Nostra ætate era sgorgata da quel cuore e quella mente, capaci di narrare la buona notizia della fede cristiana in un linguaggio comprensibile a ogni essere umano e rispettoso dei “semi del Verbo” presenti in ogni autentica tradizione religiosa. Così lo stupore di fronte alla magnificenza della Cappella Sistina e la curiosità per gli aspetti concreti e aneddotici relativi all’elezione del papa hanno lasciato il posto a un silenzio denso di rispetto e di spiritualità: davvero il dialogo teologico è un dovere per i credenti, ma un dovere che è possibile assolvere con convinzione e, soprattutto, con gioia e gratitudine che sgorgano dal profondo.