[Questo articolo è apparso originariamente nel numero 2024/4 di Concilium, che è stato dedicato alla preghiera. Viene qui pubblicato con il permesso di Concilium.].
La preghiera cristiana
di un praticante Zen
La preghiera cristiana di un praticante zen introduzione Lo Zen fa parte del patrimonio culturale mondiale, come il Tao o lo Yoga. Tutti possono accedervi e anche i cristiani ne traggono beneficio quando adottano alcuni metodi di medita zione, assicurandosi che questi elementi non alterino la loro preghiera cristiana. Di questo non possiamo che rallegrarce ne. Ma da qui a parlare di “preghiera zen” sarebbe un passo ri schioso da compiere, dal momento che non esiste uno “zen cri stiano”, ma solo cristiani che praticano lo zen. Questi cristiani rispettano troppo questa tradizione buddhista per volerla im piegare a loro piacimento, o per “battezzarla”. Al contrario, es si vogliono realizzare il più possibile un vero incontro tra tut to lo Zen e tutta la loro fede e vita cristiana. Essi credono nella fecondità di tale incontro interreligioso, vissuto nel cuore della loro vita spirituale. È vero che oggi, anche in Giappone, lo za zen è il più delle volte vissuto in un ambiente non religioso e guidato da un desiderio di sviluppo personale. Esercitata con intensità, questa pratica porterà certamente nuovi frutti. Ma per garantire un vero incontro interreligioso, come quello che voglio descrivere qui, è opportuno attenersi alla tradizione più pura, quella dei monasteri giapponesi.
Tutto lo zen
Il buddhismo zen non è solo un metodo di meditazione, anche se la parola cinese ch’an, che si pronuncia zen in giappo nese, è una trascrizione della parola sanscrita dhyana che, nella pratica yoga, significa meditazione profonda. Lo zen è innanzi tutto un percorso buddhista di risveglio e lo zazen, la medita zione seduta, è chiaramente collocato in esso, tra le altre prati che di risveglio. Il suo ambiente tradizionale è il sōdō, il mona stero di formazione. Si tratta innanzitutto di un ambiente reli gioso, incentrato sul tempio principale dove i monaci, gli un sui, si riuniscono all’alba e più volte al giorno per recitare i su tra mentre il Maestro, il Rōshi, si prostra davanti alla statua di Shakyamuni, il Buddha. Per tutto il giorno, i monaci sono im mersi in uno stile di vita rigoroso e intenso, orientato ad esse re svegli in ogni cosa: durante il lavoro manuale, mentre man giano, mentre si lavano e infine, la sera, durante le lunghe ore di zazen. Ma questo sarebbe solo un triste universo da campo di con centramento senza la presenza del Rōshi, il monaco esperto che gli unsui incontrano personalmente ogni giorno e che testimo nia il senso ultimo di questa vita. Questo significato, la ragione di questa ricerca del Risveglio, è evidente anche nella vita quo tidiana del sōdō attraverso la recita regolare di un piccolo testo che inizia con queste parole: «Faccio voto di salvare tutti gli esseri viventi, per quanto numerosi siano». Nel Buddhismo Mahayana, la formazione monastica mira a creare nuovi Bodhi sattva, non persone brillanti, ma esseri con compassione per tutti gli esseri viventi. Questa apertura al vasto mondo è costi tutiva dello zen. Durante la pratica dello zazen, queste motivazioni religiose o umanitarie non vengono menzionate. Tuttavia, esse sosten gono l’energia degli unsui. Senza questo ambiente mentale e cordiale, i monaci non sarebbero in grado di affrontare le esor bitanti richieste della vita nel sōdō. A differenza delle tradizioni monastiche cristiane, nel mo nastero zen non c’è spazio per lo studio. Gli unsui, tuttavia, hanno generalmente ricevuto una buona formazione intellet tuale in studi buddhisti e scienze umane prima di trasferirsi nel monastero. È quindi con piena cognizione di causa che affron tano la loro formazione monastica. Devo menzionare qui un’altra importante caratteristica della pratica dello zen nei monasteri, che riguarda la necessità di superare le contraddizioni. Infatti, viene costantemente ri cordato l’obbligo di impegnarsi con tutto il cuore nella pratica regolare, contando solo sulle proprie forze (jiriki). E ogni mese questo impegno deve raggiungere il suo culmine durante una settimana di intensa meditazione in cui, ogni giorno, da pri ma dell’alba, gli unsui meditano fino a notte fonda. Si tratta di una pratica molto esigente, che offre l’opportunità di impegna re tutto il proprio jiriki. Tuttavia, si scopre che ogni giorno, non appena i monaci si riuniscono nel tempio principale, prima di qualsiasi meditazione, iniziano a recitare un sutra al Bodhi sattva della Compassione. È una vera e propria “preghiera del cuore”, un’intensa supplica a Kanzeon affinché li aiuti durante la giornata. Questa breve invocazione di quarantadue caratte ri viene ripetuta trentatré volte, con intensità sempre crescente, e termina con il grido di un fragoroso MÛ. Poi i monaci entra no nel grande silenzio dello zazen. Colpisce l’accostamento tra jiriki e tariki (la forza che viene da un Altro): durante lo zazen si deve contare solo su sé stessi, ma prima si è pregato l’Altro! Queste due fonti di energia, che all’apparenza si escludono a vicenda, si uniscono insieme misteriosamente nella pratica. Il mondo dello zen non ha paura delle contraddizioni.
Tutta la mia fede cristiana
Questa capacità di vivere insieme esperienze apparente mente contraddittorie arriva proprio nel momento in cui vo glio parlare di “tutta la mia fede cristiana”. Credo in quella che chiamo una contrapposizione fruttuosa. Non è diluendo un po’ la mia fede che potrò accogliere meglio tutto lo zen; non è prendendo solo gli elementi dello zen che mi fanno comodo che potrò preservare la mia fede da ogni pericolo. Non si tratta nemmeno di cercare la complementarità: entrambe le parti so no complete! Ma avvicinandosi, accogliendo lo splendore l’uno dell’altro, ognuno scopre che si rivelano potenzialità insospet tate. Elementi delle rispettive tradizioni non ancora pienamen te sviluppati possono fiorire meglio. Posso solo dare un reso conto personale di un tale incontro, perché le generalizzazioni sono inutili in questo campo. Parlerò in seguito di altri com pagni di questo cammino di incontro interreligioso, perché c’è una storia personale per ognuno. Da parte mia, vivo questo incontro come un’esperienza di ospitalità. Una cosa è accogliere cordialmente un compagno di viaggio e comunicare con lui durante tutto il percorso; un’al tra cosa è invitarlo a stare a casa mia per un po’. L’ospitalità è un impegno molto più forte del dialogo. Sappiamo che tutte le religioni tendono a presentarsi come autosufficienti e quindi esclusive. Ma tutte rispettano anche l’ospitalità, la quale sem bra indicare una breccia nella loro autosufficienza. Suggerisco che dobbiamo stare in questa breccia e accogliere l’altro, piutto sto che limitarci a dialogare. L’esperienza dell’ospitalità è una benedizione. Come spiega san Benedetto nella sua Regola, la presenza dello straniero nella nostra casa è sempre una grazia. L’ospite che viene da qualunque altro luogo può persino esse re un messaggero del Signore. È in questo senso che posso ac cogliere tutti gli zen nella mia casa, perché anche se la mia fe de cristiana mi basta e mi soddisfa, non è escludente ed è lieta di accogliere altre testimonianze di fede. L’ospitalità può allora diventare veramente feconda quando è anche reciproca, vissu ta in un’esperienza di amicizia. In pratica, per accogliere adeguatamente il nostro ospite, dobbiamo innanzitutto assicurarci di avere una vera e propria “casa”, per accoglierlo nella nostra abitazione. Non è possibi le accogliere bene l’altro tra due porte. Nell’incontro interre ligioso, questa “casa” è la nostra identità spirituale, radicata nella nostra tradizione. Come nel sōdō, per gli unsui in Giappo ne, l’ambiente di vita dei cristiani che fanno meditazione deve quindi includere anche altri elementi della vita spirituale, co me il servizio, la lectio divina e la liturgia, poiché senza un’espe rienza spirituale precedente, la meditazione stessa rischia di di sperdersi nella sabbia. Ma questo non significa che si debba vi vere in un monastero! È vero che la maggior parte dei pionieri di questo incontro tra cristianesimo e zen erano religiosi, come i padri Enomiya Lassalle, Thomas Merton, Yves Raguin, Shi geto Oshida, Kakishi Kadowaki e William Johnson. Ma ci sono anche laici come Karlfried Dürckheim, per i quali la tradizione cristiana si è rivelata un luogo di accoglienza molto propizio, una solida casa per ospitare l’incontro interreligioso. Notiamo di sfuggita che questa dimora non è sempre ospi tale. C’è stata una forte riluttanza nei confronti delle prime esperienze di incontro approfondito con lo zen. Nel 1960, il pri mo libro di padre Lassalle su questo tema dovette essere riti rato dalla distribuzione per ordine dei suoi superiori. La Con gregazione per la Dottrina della Fede pubblicò un severo docu mento di ammonimento nel 1989 e un famoso teologo ha addi rittura definito questo incontro un tradimento e un adulterio. Lo zen è infatti particolarmente pericoloso: non rischiamo forse di diventare buddhisti senza saperlo, praticando assiduamente lo zazen? È vero che chi si impegna in questo incontro a livel lo di preghiera alla fine si trova cambiato – ma non per questo snaturato – come vedremo in concreto.
L’esperienza
Lo zazen, come abbiamo visto, è vissuto originariamente in un contesto monastico, ma questo contesto è esso stesso par te di una storia. Proprio come la preghiera cristiana, lo zazen si colloca in un contesto storico e religioso complessivo. Per prati carlo bene, senza isolarlo, è quindi necessario avere almeno un po’ di familiarità con questo contesto. Innanzitutto c’è l’origine buddhista di questa scuola, ri chiamata ogni giorno dalla recita dei sutra, e in particolare dell’Hannya Shin Gyo, il sutra della Grande Saggezza. I patriar chi che fondarono la tradizione buddhista più di mille anni fa rimangono molto presenti anche nella pratica dello zen in Giappone. Essi hanno inaugurato un particolare stile di vita che ancora oggi caratterizza lo zen. Abbiamo conservato rac colte di frasi e strani aneddoti di Daruma, Eno, Joshu, Rinzaï, Mumon, ecc. Sono la base del kōan e di altri aforismi che ali mentano la memoria e l’immaginazione di coloro che medita no. È una gioia leggere queste raccolte e scoprire che lo zazen è fondamentalmente un modo per essere veramente liberi. Per quanto riguarda lo zazen in sé, quando è praticato dai cristiani, esso comporta un tempo regolare di silenzio, più o meno lungo, un tempo sacro dedicato a Dio. Tuttavia, lo za zen non è una preghiera in senso proprio, non è un dialogo con il Signore, perché, dopo una breve invocazione esplicita come inizio, colui che medita entra in un silenzio totale. Possiamo chiamarlo un silenzio di adorazione, vissuto davanti a Dio, ma è vissuto come la coscienza risvegliata della sua presenza, al di sotto di ogni riflessione e di ogni volontà, nella fiducia che que sto ritiro silenzioso sia fruttuoso. Questo tempo di zazen non è però una vaga fantasticheria. È vissuto secondo un metodo molto rigoroso, un preciso modo di stare seduti, di respirare e di guidare la mente. Non è questa la sede per descriverlo nei dettagli. Ricordiamo solo che lo zen prende molto sul serio la nostra condizione incarnata e richie de una postura che favorisca il risveglio. Non si tratta quindi di adottare un atteggiamento comodo, per «evitare che il corpo danneggi la riflessione», come si diceva un tempo in certi am bienti cristiani che collocavano la preghiera nella testa. Lo zen si vive in tutto il corpo, ma noi diamo particolare importanza alla respirazione, quella profonda, addominale. Tutti gli altri requisiti dello zazen sono finalizzati a vivere meglio questa re spirazione, perché la meditazione consiste proprio nel metter si in sintonia con questo movimento fondamentale della vita. Lo zazen si pratica con gli occhi aperti. Non si tratta infat ti di iniziare escludendo qualcosa, di “raccogliersi” chiuden do gli occhi. Al contrario, vediamo tutto – ma non ci fissiamo su nulla; sentiamo tutto – ma non ascoltiamo. Questo attegiamento è molto significativo e addirittura centrale nello zen. Consiste nel non voler afferrare nulla e nel non voler inseguire nulla. Si tratta di mettere fuori gioco ogni attaccamento, ogni rifiuto e quindi ogni forma di possesso. Alla fine, dopo ore di meditazione, il mulino del pensiero rallenta e smette del tutto di macinare idee e sentimenti. Non si tratta più di avere, né di sapere o fare qualcosa, ma semplicemente di essere, di esserci. Potremmo allora chiederci: cosa rimane della nostra personali tà, quando viene privata di tutto ciò che la costituisce? Proprio quando la persona è così spogliata di tutto l’avere, di tutto il sapere e di tutto il potere, il “cuore originario” (hon shin), se condo l’espressione tradizionale dello zen, finalmente si rive la. E questo “cuore originario” è pura relazione, è l’esperienza dell’interdipendenza. Non ha quindi una consistenza propria, ma è comunione con tutto e tutti. Non è statico, perché con il movimento del respiro è costantemente accogliente e donativo. A poco a poco, la pratica dello zazen ci immerge nel silenzio e nell’esperienza indescrivibile del vuoto. Paradossalmente, l’esito di questo “percorso”, il kenshō (letteralmente: la visione della propria natura) non è un’illumina zione o un’estasi al di fuori di questo mondo, ma piuttosto una presenza totale nella vita quotidiana. È per questo che l’espe rienza non si esaurisce con il tempo dello zazen. Anche se il tuffo nel silenzio non è ancora molto profondo, ci si scopre ora più presenti, desti a tutto ciò che la vita offre, pieni di gratitudine.
Conclusione
Thomas Merton pare abbia avuto un’esperienza del gene re. Ne parla nel suo Diario: «Al centro del nostro essere c’è un punto di nullità, un punto di pura verità, inaccessibile alle idee bizzarre della nostra mente o alle brutalità della nostra volon tà... Questo piccolo punto di nulla e di assoluta povertà è la pu ra gloria di Dio in noi» 1 Lo zen non dice nulla su Dio, ma, scavando nel silenzio, ci aiuta a cercarlo di più. È un’esperienza che mette a nudo la no stra vera natura, la nostra origine fondamentale. E, in questo modo, sviluppa anche la nostra “capacità” di accogliere Dio. Se l’uomo è ‘capax Dei’, è perché può sperimentare la sua assoluta povertà, che è, paradossalmente, «la pura gloria di Dio in noi». Questa intuizione attraversa tutta la tradizione spirituale cristiana. Sant’Agostino testimonia a suo modo questa espe rienza: «Ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te!». Questo ‘inquietum cor’ non è solo una miseria da fuggire; è un’esperienza di povertà e la fonte di una grande energia spirituale che ha sostenuto la ricerca di tutta la sua vita. Dobbiamo anche menzionare la preghiera apofatica di Dionigi l’Areopagita o la Nube della non-conoscenza e la Notte oscura. Tutte queste tradizioni cristiane sono più che mai attuali.
Questo fa pensare anche a un altro aneddoto che proviene da un maestro zen dell’VIII secolo, Basho. A un discepolo ve nuto da lontano per chiedergli di trasmettergli “il tesoro della Legge”, rispose: «Il tuo interrogare, ecco il tuo tesoro!». I cristiani di oggi, ricchi di tanti tesori di dottrina e testimonianze, non sono più invitati a cercare e a interrogarsi, perché hanno tutte le risposte giuste, accumulate dalla teologia nel corso dei secoli. Purtroppo queste risposte non interessano più molto i nostri contemporanei. È quindi a livello di domanda che possiamo incontrarli meglio. Ci ripropongono la domanda che il salmista ha sentito una volta: «Dov’è il tuo Dio?». E, attraverso questa povertà fondamentale vissuta nella meditazione, siamo in comunione con coloro che sono arrivati, o sono stati costretti, a porsi questa domanda fondamentale. Spesso possono viverla solo in modo negativo, ma noi ci uniamo alla loro ricerca di senso. Lo zen, questa tradizione buddhista praticata con rigore, può quindi essere una forma di preghiera cristiana, quando ci svela questa “capacità” di Dio «per la sua pura gloria» e raggiunge così un’intensa comunione con tutti gli esseri umani nelle loro aspirazioni più alte e profonde.
1.Thomas Merton, Diario di un testimone colpevole, Garzanti, Milano 2004, 157.
Traduzione di antonio saBetta