|
Dilatato Corde 5:1
January - June, 2015 LA NOBILITÀ SPIRITUALE E LA BELLEZZA DELL'ANIMA A Hamed Fayazi Quella che state per leggere è una storia di fantasia che assembla, cuce insieme in maniera originale parole e dati storici veritieri, trasmessi dalle fonti letterarie, dunque intessuta di elementi fedelissimi ai documenti[1]. Raccontando questa storia vorrei raccontare l’avventura della mia scoperta di al-Sulami (937-1021)[2] fatta attraverso la lettura delle pagine del Kitab al-futuwwa[3] e di altre pagine di questo maestro sufi – di cui diverse opere sono ormai disponibili in italiano[4] – in dialogo con la spiritualità cristiana della quale mi nutro nella mia vita di monaco cristiano. La storia inizia nella grande biblioteca, ereditata dal nonno dopo la sua morte nel 980, della casa del “servo del Misericordioso” Abu ‘Abd al-Rahman al-Sulami a Nishapur, nella regione persiana del Khorasan, nel nord-est dell’attuale Irān al confine con l’Afghanistan. Siamo in un anno imprecisato tra gli ultimi del primo millennio, quando Nishapur, durante il periodo in cui il califfato abbaside era sottoposto alla pressante tutela della dinastia sciita dei Buwahidi (932-1055), divenne di fatto il centro dell’islam sunnita. In questa fiorente e vivace città, “detta la Piccola Damasco per la sua gran quantità di frutta, giardini e corsi d’acqua, oltre che per la sua bellezza”[5], al-Sulami era nato da una famiglia di origini arabe nel trecentoventicinquesimo anno dell’hijra (937) e là era cresciuto. Ora, dopo anni di viaggi numerosi in cerca di conoscenza, il giurista, studioso e maestro che aveva ricevuto la khirqa, la veste di lana dei sufi, l’aveva dismessa. Lo shaykh, quando interpellato su questo abbandono di segni esteriori, non rispondeva direttamente, ma amava citare lo shaykh Abu Yazid al-Bistami il quale, a chi gli chiese: “Qual è il segno più importante del conoscitore?”, rispose: È che tu lo vedi che mangia con te, beve con te, scherza con te, ti vende qualcosa, ti acquista qualcosa, mentre il suo cuore è nel regno della santità. Questo è il suo segno più particolare[6]. A chi insisteva nel dire di non comprendere, ricordava ancora parole altrui: Ho udito Abu ‘Amr ibn Muhammad ibn Ahmad ibn Hamdan che diceva di aver udito suo padre dire: “Quando Abu Hafs entrava in casa, indossava l’abito rattoppato (muraqqa‘), il mantello di lana (suf) e altri abiti degli uomini spirituali; quando invece usciva per incontrare gli uomini indossava i vestiti della gente che c’è nei mercati, stimando che se si fosse vestito in altro modo, come faceva in casa, avrebbe fatto mostra di ostentazione o di affettazione[7]. Se non per qualche occasionale viaggio a Baghdad, lo shaykh al-Sulami ormai lasciava raramente la sua casa di Nishapur, che aveva trasformato in una zawiya, per potersi dedicare allo studio e alla vita spirituale sua e dei suoi discepoli. Passava lunghe ore in quella biblioteca a organizzare la grande quantità di hadith, le parole del Profeta, e di aneddoti e sentenze di grandi sufi. In città molti lo conoscevano come grande compilatore e traduttore, nel senso primo della parola: “trasmettitore”. Il suo metodo di raccolta e copiatura era infatti ormai riconosciuto da tutti come la caratteristica principale delle sue numerose opere: un centinaio, secondo il suo biografo Khashab († 1064). Nella sua biblioteca lo shaykh sta scrivendo un biglietto al caro amico d’infanzia ‘Abdisho‘, nome che gli era stato dato al momento della tonsura monastica e che significa “servo di Gesù” in siriaco, la lingua usata dai cristiani di queste zone nelle loro liturgie. ‘Abdisho‘ era infatti divenuto monaco cristiano nel Dayr Mar Sehyon (“Monastero della Santa Sion”) nella vicina città di Tus, sulla via per Merw, la porta dell’Asia[8]. Il biglietto che lo shaykh sta scrivendo non è il primo indirizzato all’amico cristiano. Una lunga corrispondenza legava i due amici che erano stati giovani insieme a Nishapur. Più di una volta si era recato anche al suo monastero per conversare con lui, ed era stato stupito dai non pochi musulmani che frequentavano il monastero: anche poeti vi soggiornavano per trarre ispirazione[9]… Quest’ultimo biglietto è destinato ad accompagnare una copia dell’opera che ha appena terminato di redigere, ed è in risposta all’ultima lettera ricevuta da ‘Abdisho‘ qualche mese prima. Negli anni precedenti l’amico si era mostrato a più riprese insoddisfatto delle spiegazioni che lo shaykh gli aveva dato di un concetto che ‘Abdisho‘ sentiva familiare ed estraneo allo stesso tempo, e che si celava dietro alla parola araba futuwwa[10]. Una prima volta, anni addietro, quando stava compilando una raccolta di biografie di personaggi del sufismo – Tabaqat al-sufiyya (Categorie di sufi) – lo shaykh gli aveva trasmesso quella che è ritenuta la prima, precisa definizione in assoluto di questo termine, attribuita a un loro conterraneo, originario di un sobborgo alle porte di Nishapur, Abu Hafs al-Nīsaburi († 874), annoverato tra i fondatori e primi seguaci di quella “via del biasimo” percorsa anche dallo shaykh, la via dei malamatiyya[11]: “Per me la futuwwa consiste nell’agire con giustizia senza aspettarsi di essere trattato con giustizia”[12]. Lodevole, questa definizione, ma troppo poco per accontentare ‘Abdisho‘. Al-Sulami tornò a spiegargli brevemente questo termine mentre gli stava presentando la spiritualità e l’etica vissuta dai malamatiyya, riferendosi soprattutto a modelli biblici, filtrati attraverso la reinterpretazione coranica, che sapeva essere ben noti all’amico cristiano: Qualcuno, a cui avevano chiesto che cosa designasse precisamente il termine futuwwa, rispose: “È la caratteristica di chi possiede il pentimento implorante di Adamo, la giustizia (salah) di Noè, la fedeltà di Abramo, la sincerità di Ismaele, il culto sincero di Mosè, la pazienza di Giobbe, il pianto di Davide, la generosità di Muhammad […], la pietà di Abu Bakr, l’ardore di ‘Umar, il pudore di ‘Uthman e la scienza di ‘Ali; inoltre egli disprezza completamente se stesso e disdegna la sua condizione. Non gli accade di inorgoglirsi se il suo cuore ha colto qualcosa e non c’è stato [spirituale] che lo soddisfi, perché vede i difetti della sua anima e le carenze delle sue azioni; e vede il merito dei suoi fratelli superiore al suo in ogni stato”[13]. In seguito lo shaykh si ricordò dell’interesse del compagno cristiano quando si accinse a scrivere uno dei primi trattati sul sufismo, con l’intento di sistematizzarne il pensiero e la pratica spirituale. Così, terminato di scrivere il suo Kitab al-muqaddima fi al-tasawwuf (Introduzione al sufismo), inviò subito a ‘Abdisho‘ il capitolo VIII “sulla cavalleria” (bab al-futuwwa), in cui aveva trattato il tema, più diffusamente di un tempo e appoggiandosi come di consueto alle parole dei maestri: Fu chiesto a Sufiyan al-Thawri sulla cavalleria (al-futuwwa) e questi rispose: “È il perdonare lo sbaglio dei fratelli”[14] […]. Della cavalleria il giovane deve tenere a mente cinque cose: la fedeltà, la temperanza, la sincerità, la fratellanza devota, la correttezza dell’intenzione […]. Ha detto uno dei dotti: “Colui nel quale riscontro queste sei qualità, di lui dico che è adatto per la perfetta cavalleria; esse sono: l’essere riconoscente di fronte alla scarsezza di beni, l’essere paziente di fronte alle molte avversità, il trattare l’ignorante con indulgenza, l’essere cortese con l’avaro trattandolo con generosità, il non cercare una ricompensa per ciò che suscita la lode della gente, né il vantarsi per ciò che si è fatto di buono in passato”[15]. Poi, dopo aver citato dal Corano episodi di chiara reminescenza biblica[16] che ‘Abdisho‘ ben comprese, concludeva: Il principio della cavalleria in ogni condizione è quindi il far coincidere la realtà intima all’esteriorità, in ogni azione e in ogni discorso, unitamente alla rinuncia del vanto per le proprie azioni, all’adempiere i doveri della religione, a seguire l’esempio profetico (sunna), all’osservare il comandamento di Dio e all’evitare ciò che egli ha proibito. I doveri della cavalleria sono quindi: la sincerità, la lealtà, la generosità, la riservatezza, la bontà di carattere, la nobiltà d’animo, la benevolenza verso i fratelli, l’evitare la turpitudine, il prestare attenzione nei riguardi degli amici, la fedeltà al patto, l’allontanarsi dal rancore e dalla violenza, la costanza nel coltivare le amicizie in Dio e nel rinnovarle, l’essere prodigo verso i fratelli negli averi, la dignità e la rinuncia alla riconoscenza, l’amore per gli uomini migliori e per la loro compagnia, e così di seguito[17]. Da una lettera che l’amico gli fece giungere qualche tempo dopo apprese quali risonanze suscitarono queste parole nell’animo del monaco ‘Abdisho‘: si sentiva anch’egli – gli scriveva – un “cavaliere” che persegue quotidianamente la difficile arte della “cavalleria spirituale”! E poi quell’idea – che spesso affiorava nelle parole e nella pratica dell’amico musulmano – di malama, “biasimo”, “disprezzo” da sopportare, anzi addirittura da scegliere quale via di perfezionamento spirituale, gli ricordava tanto l’idea della shituta vissuta da alcuni suoi confratelli asceti e i cui fondamenti spirituali aveva tante volte meditato quando in monastero si leggeva il Ktaba d-masqata (Libro dei gradi; Liber graduum)[18]…e gli tornavano alla mente quelle parole tante volte ascoltate dal suo più grande maestro spirituale: Se un uomo non disprezza gli onori e i disonori; se non sopporta a motivo della quiete l’ignominia, la derisione e il detrimento, fino alle percosse; e se non è deriso e ritenuto folle e fuori di senno da coloro che lo vedono, non possiede i beni della quiete[19]. Così, mosso dalla curiosità e dalla comunione spirituale dell’amico monaco cristiano, lo shaykh al-Sulami si era messo di buona lena a scrivere un trattato tutto dedicato al tema del futuwwa. E ora lo ha finalmente terminato e intitolato esattamente Kitab al-futuwwa, “Il libro della cavalleria”. Ed eccoci ritornati nella biblioteca della casa di Nishapur, dove lo shaykh sta scrivendo una lettera all’amico monaco del Monastero della Santa Sion a Tus: Venerabile e amato fratello “timorato di Dio”[20], nel nome di Dio clemente e misericordioso, pace a te! Rendo “gloria a Dio che ha illuminato davanti a noi la via della futuwwa nella quale si compie ogni virtù!”[21]. Ricevi il manoscritto del mio ultimo lavoro, che porta il titolo di Kitab al-futuwwa, in cui ti offro “una breve illustrazione tratta dalla tradizione del Profeta e da quella dei nostri antenati, della loro attitudine e condotta virtuosa, rimettendomi per questo e per tutte le cose a Dio: conto su di lui, che eccellente appoggio!”[22]. Mi permetto di avanzare, con rispetto, una richiesta a te, caro compagno nella lotta spirituale. Alle numerose citazioni di maestri sufi che ho qui raccolto vorrei che tu aggiungessi, di tuo pugno, le parole veritiere e profonde dei tuoi maestri spirituali che hanno vissuto e tramandato gli insegnamenti della tua via spirituale, di cui tu già mi parlasti nelle nostre conversazioni precedenti e che tanta eco ebbero in me. Concordo infatti con Muhammad ibn Husayn al-Burjulani – che Dio si compiaccia di lui! –, il quale dice che i “discorsi dei monaci [… sono] discorsi che ci guariscono, […] discorsi che danno all’anima un ammonimento”[23]. Inoltre, “la futuwwa è [anche] riconoscere la veridicità delle parole degli uomini sinceri quando riportano dei fatti che li riguardano o che riguardano i loro maestri nella Via”[24]… Quanto a me, domando a Dio – sia esaltato! – che mi faccia dono di un comportamento elevato e del favore di mettere in pratica la via della futuwwa, che mi perdoni per la perdita dei miei ‘istanti’ e per la negligenza dei miei stati spirituali[25]. “Caro amico, possa Dio allietarti con la luce della sua grazia”[26], e insieme possa Egli “accordarci la grazia di andare verso ciò che ci porterà alla sua prossimità e al suo gradimento!”[27]. Passò del tempo da quel momento al giorno in cui ‘Abdisho‘ inviò di nuovo il manoscritto all’amico da cui lo aveva ricevuto. Aveva ripreso in mano molte volte il testo e via via le sue annotazioni a margine erano cresciute. Il motivo per cui aveva tardato così tanto a rispondere era espresso nella lunga lettera che accompagnava il volume: Venerabile fratello amato da Dio, grazia a te e pace da Dio Padre nostro, al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen[29]. Scusa il ritardo con cui ti restituisco il tuo prezioso manoscritto con le mie umili annotazioni. Devi sapere che alla lettura della tua opera mi sono molto appassionato e le tue sintesi hanno più volte rischiarato anche la mia interiorità e illuminato la mia condotta monastica. Ti confido che mi sono trovato a mio agio nel leggere il tuo scritto innanzitutto per lo stile da te utilizzato, fatto di brevi affermazioni sintetiche – che cominciano con “La futuwwa è …” – corredate da catene di “appoggi” (asanid) costituiti da parole del Profeta e dei maestri della sapienza sufi. È proprio quello che cercavo per comprendere più chiaramente questo concetto. Sono inoltre abituato ad attingere ad opere che sono veri e propri “depositi” di sapienza degli anziani. Alla nostra tradizione monastica cristiana è sempre risultato chiaro che la vita monastica non la si inventa ma la si riceve, e per riceverla occorre mettersi in ascolto di chi quella sapienza monastica ce l’ha trasmessa. Per questo la biblioteca del mio monastero abbonda di manoscritti che raccolgono apoftegmi e vite dei padri del monachesimo vissuti prima in Egitto e poi in Siria e nelle nostre terre: un grande monaco, ‘Enanisho‘, tre secoli fa ne ha raccolti diversi e li ha tradotti in siriaco[30], la lingua che noi usiamo insieme all’arabo. Come vedrai, mi sono dunque riferito alla sapienza trasmessa da questi detti, cui spesso attingo per nutrire la mia vita spirituale. Ma c’è un’altra fonte che ho sentito immediatamente parlare un linguaggio consonante con il tuo: i Discorsi ascetici di mar Isacco, nativo del Qatar e vescovo di Ninive, vissuto nella seconda metà del VII secolo. Una ragione per cui ti citerò sue parole è anche che non molti decenni fa un mio fratello monaco, di nome Hanun ibn Yuhanna ibn al-Salt, ha raccolto e tradotto in arabo una serie di massime di mar Isacco[31]. Più profondamente, è perché “Isacco ha predicato con insistenza l’amore per la misericordia che è il fondamento dell’adorazione e l’umiltà che è il baluardo delle virtù”, come ha scritto lo stesso Ibn al-Salt. Leggendo le mie annotazioni capirai tu stesso il vero senso di queste parole. Ti basti per ora il giudizio di un tuo fratello musulmano, Abu al-‘Abbas ‘Isa ibn Zayd ibn Abi Malik, che riconobbe: “Mar Isacco parla la lingua del cielo”[32]. Da dove cominciare? Inizio raccogliendo le tue sintetiche definizioni di futuwwa, che tu dici essere innanzitutto “ciò che migliora il tuo carattere e le tue azioni”[33]. Sublime questa sintesi, che lega inscindibilmente “nobiltà di spirito”, “pulizia spirituale”, “bellezza, dolcezza e nobiltà di carattere nel seguire la Via”[34] alla “nobiltà e finezza di comportamento”[35]. Futuwwa è infatti – mi spieghi – “eccellenza del carattere sul piano esteriore che si accompagna, sul piano interiore, a stati spirituali autentici”[36]. In questa corrispondenza mi sembra di vedere la vera sapienza della futuwwa, che nelle tue pagine è espressa in due movimenti sincronici, l’uno interiore e l’altro esteriore: la lotta spirituale contro la “tirannia dell’ego”[37] attraverso una disciplina del proprio cuore e una condotta di vita tutta ispirata all’ithar, il servizio all’altro, al fratello. Come non posso riconoscere in questo ritratto anche il ritratto del monaco, che non desidera essere nient’altro che un semplice amante della bellezza spirituale, in una vita che è costante spossesso di sé per vivere quella “carità [che] sottomette gli uni agli altri degli uomini liberi e mantiene libera la loro volontà”[38]? Il nostro mar Isacco ha visto con finezza il pericolo della scissione di questo inscindibile legame tra vita spirituale e un comportamento bello ispirato ad essa dicendo, con una suggestiva immagine: “A una vita spirituale cui non seguono belle condotte cominciano a staccarsi le ali”[39]! Percorrendo il tuo manoscritto mi sono fermato a meditare su tanti temi che tu presenti come elementi costitutivi della futuwwa, e che riconosco essere elementi portanti anche della mia vita di monaco. A margine del testo troverai abbondanti riferimenti alla letteratura cristiana e monastica su questi temi; qui vorrei solo sintetizzarli per richiamarli alla memoria. Essi comprendono i tre ambiti fondamentali della vita dell’uomo, nei quali deve esprimersi la futuwwa. Il primo ambito è il rapporto con Dio. Qui tu mi ricordi soprattutto il timore e il ricordo di Dio, l’abbandono fiducioso a lui e alle sue promesse di amore, la comunione con lui che diventa conformità alle sue volontà. Mi ha colpito particolarmente come tu descrivi questo movimento in termini di “migrazione” verso Dio: una migrazione che, se condotta con determinata e gioiosa perseveranza, ci condurrà all’incontro con lui. Il secondo ambito è il rapporto con se stessi e con le dimensioni che costituiscono l’uomo. A questo proposito tu ricordi la disciplina nei confronti del cibo e il digiuno come arma nella lotta contro le passioni; la consapevolezza nei confronti del tempo, da vivere con pienezza ad ogni istante; la giusta misura nel rapporto con la realtà, le cose, i beni. Ho gioito nel constatare che tutto il tuo discorso a questo proposito ruota attorno a poche, semplici ma esigenti parole: dono incondizionato e condivisione senza riserve dei frutti del proprio lavoro, via privilegiata per vivere quello spossesso di sé che si manifesta anche nel distacco dalle proprie azioni e dal frutto che esse producono. La tua fine analisi a questo proposito riconosce i veri tratti della “povertà spirituale” e l’atteggiamento fondamentale del “povero in spirito”, sulla cui tavola – come mi ricorda un mirabile detto da te riportato – “non è decoroso che vi siano più delle quattro cose seguenti: la fame, la povertà, l’umiltà, la gratitudine”[40]. Mi ricordi anche quello che anch’io, nella mia solitudine, mi sforzo di praticare: il distacco dal mondo, quello vero, che non è disprezzo del mondo ma consiste essenzialmente nel “non lasciare sul proprio cuore nessuna impronta del mondo”[41]. Infine concordiamo, mi pare, sulla necessaria conoscenza del proprio peccato, senza la quale non è possibile un corretto rapporto con la realtà e con gli altri. In monastero conosciamo tutti a memoria le mirabili parole di mar Isacco a questo proposito: L’uomo che non conosce se stesso è un uomo perduto[42]. Chi si conosce si rialza[43]. Colui che è sensibile ai suoi peccati, è più grande di colui che soccorre la terra abitata mostrandosi ad essa. Colui che geme per un solo istante su se stesso, è più grande di colui che risuscita i morti con la sua preghiera, mentre la sua dimora è in mezzo alla moltitudine. Colui che è stato reso degno di vedere se stesso, è più grande di colui che è stato reso degno di vedere gli angeli[44]. E il rapporto con gli altri è il terzo ambito di cui tratti e in cui si esplicita la futuwwa. Quella grandezza d’animo, quella magnanimità, che tu in un’altra tua opera definisci proprio “avere il cuore grande”[45], diviene sempre anche un cuore che ospita l’altro in sé, che palpita insieme al cuore del fratello. Se ho letto con intelligenza il tuo trattato, mi sembra che su questa terza dimensione tu insista in lungo e in largo, facendone emergere tutte le dimensioni essenziali: l’autentica sincerità nei rapporti fraterni, la rispettosa discrezione, la gioiosa umiltà che – come dice il nostro mar Isacco – “nasce dalla conoscenza di Dio e di se stessi”[46], la pronta sottomissione al bisogno del fratello, la generosità senza discriminazioni, la comunione perseverante che non viene meno nel tempo e con l’insorgere delle difficoltà, la pratica dell’ospitalità… Ma al cuore di tutto questo – se l’intuito spirituale che ho raffinato in questi anni non mi tradisce – stanno la misericordia e la compassione, come veri segni distintivi di chi cammina sulla via della futuwwa, come uniche condizioni per il perdono incondizionato e la riconciliazione senza dilazione, per la vitale sopportazione e pazienza nei confronti del fratello nella sua debolezza, al fine di arrivare a quell’“impossibile” che è il coprire il peccato del fratello con una benevolenza che in lui vede solo il bene. Futuwwa – tu mi insegni – “è giungere a vedere nei propri fratelli ogni sorta di bene mentre, conoscendo le tendenze negative della propria anima, si rigetta lontano da essa ogni pretesa personale e qualunque bene”[47]; un uomo giunto alla purezza di cuore, ti faccio eco io attingendo alla mia fonte, è “colui che vede belli tutti gli uomini”[48]. Mar Isacco è stato il grande cantore della misericordia[49], in tutta la sua vita ha esortato: “Fratello mio, ti raccomando che nell’intera tua condotta abbia il sopravvento il peso della misericordia”[50], avendo riconosciuto in questo il segno grande di quella che lui chiama “bellezza dell’anima”, e che tu puoi chiamare senza esitazione “nobiltà spirituale”: Segno luminoso della bellezza della tua anima sarà questo: che tu, esaminando te stesso, ti trovi pieno di misericordia per tutti gli uomini, il tuo cuore è afflitto per la compassione che provi per loro, e brucia come nel fuoco, senza fare distinzione di persone[51]. E, poco oltre, estende questa misericordia a tutto il cosmo, persino ai demoni! Cos’è un cuore misericordioso? È l’incendio del cuore per ogni creatura: per gli uomini, per gli uccelli, per le bestie, per i demoni e per tutto ciò che esiste. Al loro ricordo e alla loro vista, gli occhi versano lacrime, per la violenza della misericordia che stringe il [suo] cuore a motivo della grande compassione[52]. Se mi chiedessi, alla fine della lettura, qual è la definizione di futuwwa che più mi ha toccato tra le decine che tu riporti, francamente ti direi che è la semplice, pura sintesi uscita dalla bocca di quel beduino che tu citi sul finire della tua disquisizione: “[La futuwwa è] l’offerta di un pasto, un viso accogliente, un comportamento degno e il non nuocere mai a nessuno”[53]. So che non ti stupirai di questa mia scelta, perché tu sai che, come monaco, sono abituato a captare le parole che sono trasparenza del cuore, e in queste parole, più che in tutte le altre, sento il fuoco che brucia nel cuore di chi le ha pronunciate, sento quel “qualcosa che ha preso posto nel suo petto”[54]. Per concludere, sono rimasto incuriosito dagli accenni che tu fai agli impedimenti che si insinuano nell’anima dell’uomo e si frappongono sulla via della futuwwa: avarizia, collera, ambizione, avidità, e così via[55]; e mi ha colpito un tuo consiglio: “La futuwwa è distaccarsi dalla passione […] Non mettere la tua vita tra le mani della passione: questa ti porterà dritto verso le tenebre, perché essa stessa fu creata dalle tenebre”[56]. Mi ricordo che un giorno mi dicesti che hai composto un trattato specificamente dedicato all’analisi di queste “malattie dell’anima” e ai “rimedi corrispondenti”[57]. Anche i nostri padri hanno molto meditato e scritto su queste malattie, chiamandole piuttosto “pensieri cattivi”, “passioni”, “vizi”. È vero: dalla vigilanza dipende gran parte della nostra vita spirituale, e su questo tema già percepisco echi fecondi tra le nostre tradizioni… Alla tua voce che dice: “La futuwwa è considerare con vigilanza il nostro stato interiore e il nostro comportamento esteriore”[58], ti risponderebbe prontamente quella di un anziano del deserto: “Se il nostro uomo interiore non è vigilante, non è possibile custodire anche quello esteriore”[59], e ti farebbe eco anche il nostro padre mar Isacco, che per un’ultima volta mi permetto di citarti: “La ricchezza e la salute [dell’anima] sono assicurate dalla vigilanza e dall’attenzione”[60]. Sarebbe bello tornare a confrontarci su questo tema centrale per la vita spirituale, per meglio combattere nella nostra lotta e per progredire più speditamente – come tu scrivi a conclusione della tua opera – “verso ciò che ci porterà alla Sua prossimità”[61]. Se non ricordo male, mi dicesti che questa tua opera che tratta de Le malattie dell’anima e i loro rimedi era destinata agli aspiranti, i muridun: noi qui in monastero li chiamiamo “novizi” e il superiore del nostro monastero mi ha appena nominato “maestro dei novizi”, incaricato della loro formazione. Per questo motivo, e affinché il nostro dialogo continui, ti porgo a questo proposito un ulteriore invito: potresti raccogliere, “in modo breve e sommario, tutti i suggerimenti utili per un percorso spirituale [autentico] ed evidenziare le regole di condotta dell’aspirante, i suoi attributi e tratti caratteristici”?[62]. Anche di questo ti sarei grato, perché sono sicuro che i tuoi suggerimenti sarebbero assai utili anche ai miei novizi, oltre che a me… Per ora ti saluto con quelle parole di Ibn Durayd che tu citi e che mi sono rimaste fisse nel cuore: “La tua nobiltà sia nell’essere fonte di speranza”[63]. La storia dell’amicizia spirituale dei due fratelli proseguirebbe, ma noi dobbiamo fermarci qui. Non senza riproporre, però, una sentenza di Abu al-Husayn ibn Uhayd al-Qattan al-Balkhi che al-Sulami amava citare ai suoi lettori e che anche a me piace ricordare al termine di questo racconto. Essa ci ricorda una verità profonda: dopo ogni dialogo e dopo ogni incontro gli uomini si lasciano con una comune eredità che li rende più fratelli di quanto non lo fossero fino al giorno prima, un’eredità di cui essere responsabili. Disse Abu al-Husayn: Gli uomini liberi non si incontrano solo per conoscersi. Se si incontrano diventano fratelli. Se si frequentano ereditano reciprocamente l’uno dall’altro[65]. E da qui nasce la gioia, che è un ulteriore volto della futuwwa: come ci insegna al-Sulami, infatti, “futuwwa è [anche] provare gioia quando si incontrano i propri fratelli (in Dio)”[66]! [1] La prima stesura di questo testo è nata in occasione di una conferenza tenuta dall’autore, monaco della Comunità monastica di Bose, presso il Centro culturale Dar al-Hikma di Torino il 9 gennaio 2014, nell’ambito del ciclo di incontri Al-Hikma, i giovedì della sapienza. Maestri e santi della saggezza islamica. [2] Oltre alle introduzioni premesse alle traduzioni italiane delle sue opere e alle voci a lui dedicate nell’Encyclopaedia of Islam (cf. G. Böwering, s.v. “Abū ‘Abd ar-Rahmān as-Sulamī”, in Encyclopaedia of Islam IX, a cura di C. E. Bosworth et al., Brill, Leiden 19872, pp. 811-812) e nell’Encyclopaedia Iranica (cf. S. Sh. Kh. Hussaini, s.v. “Abū ‘Abd-al-Rahmān Solamī”, in Encyclopaedia Iranica I/3, a cura di E. Yarshater, Routledge & Kegan Paul, London 1983, pp. 249-250), fondamentale è il recente studio di J.-J. Thibon, L’œuvre d’Abū ‘Abd ar-Rahmān as-Sulamī (325/937-412/1021) et la formation du soufisme, Ifpo, Damas 2009. [3] Tr. francese: Al Sulami, Futuwah. Traité de chevalerie soufie, a cura di F. Skali, Albin Michel, Paris 1989, su cui è stata realizzata la tr. italiana: Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria (Kitab af-futuwah). Una via alla realizzazione esistenziale dell’islam, Atanòr, Roma 1990. Un’altra tr. italiana, a cui però non ho potuto avere accesso, è: Sulamī, La cavalleria spirituale, Luni, Milano-Trento 1998. [4] Cf. Sulamī, I custodi del segreto. Risālat-ul-Malāmatiyya, ovvero Epistola della Gente della riprovazione, Luni, Milano-Trento 1997; Sheikh Al-Sulamī, Le malattie dell’anima e i loro rimedi. Trattato di psicologia sufi, PiZeta, San Donato 1999 (tr. di ‘Uyub al-nafs wa-mudawatuha); As-Sulamī, Introduzione al sufismo (Kitāb al-Muqaddima fī-t-tasawwuf), Il leone verde, Torino 2002; As-Sulamī, La scala di luce. Tre antichi testi di scuola malāmatī, Il leone verde, Torino 2006 (tr. di Manahij al-‘arifin, “Le vie degli gnostici”; Mas’alat darajat al-sadiqin, “Trattato sugli stadi della via degli uomini veri”; Bayan ahwal al-sufiyya, “Esposizione degli stati spirituali dei sufi”); Sulamī, L’indole dei sufī. Il compendio delle regole di condotta, ovvero il Ğawāmi‘ ādāb as-sufiyya, Mimesis, Milano 2007; Sulamī, Le buone regole della compagnia. Ovvero il Kitāb ādāb as-suhba, Mimesis, Milano-Udine 2009; Sulamī, I sūfī e i medievali peccati. Ovvero il Kitāb bayān zalal al-fuqarā’ wa ādābihim, Keltia, Aosta 2010; As-Sulamī, Donne sūfī. La santità islamica al femminile (Dhikr an-niswa al-muta ‘abbidāt as-sufiyyāt), Il leone verde, Torino 2011. [5] Ibn Battūta, I viaggi, Einaudi, Torino 2006, p. 427. [6] Sulamī, I custodi del segreto, p. 25. [7] Sulamī, I custodi del segreto, p. 43. [8] Se l’esistenza del monaco ‘Abdisho‘ è inventata, così come la sua amicizia con al-Sulami, non così è l’esistenza, reale e testimoniata dalle fonti, del Monastero della Santa Sion a Tus: cf. J. M. Fiey, “Chrétientés syriaques du Horāsān et du Ségestān”, in Le Muséon 86 (1973), pp. 75-104, in particolare pp. 87-89 (art. rist. in Id., Communautés syriaques en Iran et Irak des origines à 1552, Variorum Reprints, London 1979, art. VI). La città di Merw fu sede metropolitana di un vescovo della chiesa siro-orientale almeno a partire dal V secolo. [9] È provato storicamente che i musulmani frequentavano i monasteri cristiani, in quanto centri di studio, oppure luoghi di svago in cui era possibile trovare vino, o anche per assistere ad alcune feste liturgiche. Tra il IX e l’XI secolo si afferma addirittura il genere letterario dei kitab al-diyarat (libro dei monasteri), una sorta di antologie poetiche che prendono spunto da soggiorni in monasteri. A partire dal XII secolo il genere evolve fino a produrre vere e proprie opere storico-geografiche in cui autori musulmani censiscono e descrivono i monasteri cristiani. [10] Per una trattazione del significato di tale termine e concetto, cf. F. Skali, “Introduzione”, in Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, pp. 3-36; D. Giordani, “Introduzione”, in As-Sulamī, Introduzione al sufismo, pp. 22-27. [11] Riporto l’autorevole definizione proposta da René Guénon: “La denominazione è derivata dal termine malama, che vuol dire ‘biasimo’; come bisogna intendere questa parola per interpretare correttamente il significato di tale espressione? In effetti non è che le azioni dei malamatiyya siano biasimevoli, né in se stesse né dal punto di vista tradizionale, cosa che sarebbe tanto più inconcepibile in quanto, ben distanti dal trascurare le prescrizioni della legge sharaita, costoro si sforzano – al contrario – di insegnarle intorno a loro sia con l’esempio sia con la parola. Il fatto è che il loro modo di agire, non distinguendosi in nulla da quello del popolo, appare ‘biasimevole’ agli occhi di una certa ‘opinione’” (R. Guénon, Iniziazione e realizzazione spirituale, cit. da G. Sassi, “Introduzione”, in Sulamī, I custodi del segreto, pp. 10-11). Demetrio Giordani così sintetizza: “La caratteristica distintiva di questa corrente della spiritualità islamica, che continuerà a essere dominante in alcune delle più importanti confraternite [sufi] dei secoli successivi, è il sottrarre alla vista altrui il grado di vicinanza con Dio che essi avevano raggiunto, esasperando, al contrario, i caratteri meno nobili della propria personalità e del proprio aspetto, per poter apparire il più possibile insignificanti agli occhi della gente, fino a essere biasimati per la propria nullità” (D. Giordani, “Introduzione”, in As-Sulamī, Introduzione al sufismo, p. 19). [12] Sulamī, Tabaqat al-sufiyya, Maktaba al-Khanji, al-Qahira 1997, p. 118. Cit. da D. Giordani, “Introduzione”, in As-Sulamī, La scala di luce, p. 15. [13] Sulamī, I custodi del segreto, p. 26. [14] Un detto identico è attribuito da al-Sulami nell’opera Kitab adab al-suhba anche a Fudayl ibn ‘Iyad, che disse: “Futuwwah, il cui significato è perdonare gli errori dei fratelli” (Sulamī, Le buone regole della compagnia, p. 30). [15] As-Sulamī, Introduzione al sufismo, pp. 65-66. [16] Cf. As-Sulamī, Introduzione al sufismo, pp. 66-67. [17] As-Sulamī, Introduzione al sufismo, pp. 67-68. In questa stessa opera l’autore tratta della futuwwa anche più avanti, al capitolo XII sulla “nobiltà d’animo” (bab makarim al-akhlaq), in cui si trova citata anche la definizione di Abu Sa‘id: “Chiesero ad Abū Sa‘īd a proposito della cavalleria spirituale (futuwwa); rispose: ‘Rinunciare alle creature, smettere di chiedere confidando in Dio, nascondere la povertà facendo sfoggio di ricchezza, la continenza’” (As-Sulamī, Introduzione al sufismo, p. 84). [18] Scrive Marjian Molé: “È l’idea della shituta, ‘disprezzo’, ‘biasimo’: il santo perfetto, oltre a condurre una vita che impedisca agli altri di indovinare il suo stato, deve farsi insultare, passare per folle (shate), considerarsi come il peggiore degli uomini e agire di conseguenza. Questo sarà il fondamento stesso dei malamatiyya islamici. Uno dei più singolari documenti della letteratura mistica siriaca […], il Libro dei gradi (Ktaba d-masqata), offre una giustificazione dottrinale di questo comportamento: si tratta, in sintesi, di un’imitazione perfetta di Cristo. L’uomo perfetto ha abbandonato tutto […], si considera il peggiore degli uomini, si mescola alla gente, è ‘tutto insieme a tutti’, senza giudicare nessuno. Avendo rinunciato a tutto, non pensa ad altro che a Dio. Lo Spirito santo […] viene allora ad abitare in lui ed egli ritrova la perfezione posseduta da Adamo prima della caduta” (M. Molé, I mistici musulmani, Adelphi, Milano 1992, pp. 23-24). [19] Isacco di Ninive, Prima collezione 41, in Id., Un’umile speranza. Antologia, a cura di S. Chialà, Qiqajon, Magnano 1999, p. 135. [20] Letteralmente rahib, termine utilizzato dagli arabofoni musulmani per indicare il monaco, significa “colui che teme, il timorato”. Il monachesimo cristiano è definito in arabo rahbaniyya. [21] Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, p. 39. [22] Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, p. 42. [23] Muhammad ibn Husayn al-Burjulani († 852) è il presunto autore di un Kitab al-ruhban (Trattato sui monaci). Cf. P. Nwiya, “Moines chrétiens et monachisme en Islam”, in Studia Missionalia 28 (1979), pp. 337-355, qui p. 349. [24] Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, p. 160. [25] Cf. Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, p. 255. [26] Sulamī, I sūfī e i medievali peccati, p. 84. [27] Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, p. 255. [28] Questa, e le successive lettere, sono nate dalla mia fantasia. [29] Cf. Gal 1,3.5. [30] ‘Enanisho‘ è il compositore del Paradiso dei padri, in cui sono riunite in traduzione siriaca la Storia lausiaca e la Storia dei monaci in Egitto di Palladio e una collezione di detti dei padri del deserto da lui stesso raccolti durante i suoi viaggi in occidente e in Egitto. Cf. The Paradise of the Holy Fathers, 2 voll., a cura di E. A. W. Budge, Chatto and Windus, London 1907. [31] Cf. Isacco di Ninive, Massime arabe (Tre lettere sull’ascesi e il cenobitismo. Estratti dalle opere di mar Isacco il Ninivita)= Traités religieux, philosophiques et moraux, extraits des œuvres d’Isaac de Ninive (VIIe siècle) par Ibn as-Salt (IXe siècle), a cura di P. Sbath, Al-Charck, Le Caire 1934.Questa versione araba dei Discorsi ascetici di Isacco (la più antica o una delle più antiche) non è l’unica traduzione esistente: sulla questione si veda S. Chialà, Dall’ascesi eremitica alla misericordia infinita. Ricerche su Isacco di Ninive e la sua fortuna, Olschki, Firenze 2002, pp. 334-338. [32] Isacco di Ninive, Massime arabe 109. [33] Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, p. 170. [34] Cf. Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, pp. 104, 168, 176, 194-195, 235, e passim. [35] Cf. Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, pp. 154, 204, e passim. [36] Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, p. 230. [37] Cf. Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, p. 104. [38] Pseudo-Basilio, Costituzioni ascetiche 18,2, in Id., Nella tradizione basiliana. Costituzioni ascetiche, Ammonizione a un figlio spirituale, a cura di L. Cremaschi, Qiqajon, Magnano 1997, p. 107. [39] Cf. Isacco di Ninive, Centurie III,50, in Id., Un’umile speranza, p. 162. [40] Cit. in Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, p. 112. [41] Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, p. 212. [42] Isacco di Ninive, Massime arabe 31, in Id., Un’umile speranza, p. 51. [43] Isacco di Ninive, Massime arabe 85, in Id., Un’umile speranza, p. 51. [44] Isacco di Ninive, Prima collezione 65, in Id., Un’umile speranza, p. 73. [45] Sulamī, Le buone regole della compagnia, p. 34. [46] Isacco di Ninive, Massime arabe 24, in Id., Un’umile speranza, p. 173. [47] Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, p. 204. [48] Isacco di Ninive, Prima collezione 35, in Id., Un’umile speranza, p. 139. [49] Si veda, a proposito, S. Chialà, Dall’ascesi eremitica alla misericordia infinita, pp. 243-262, e i testi raccolti in Isacco di Ninive, Un’umile speranza, pp. 181-207. [50] Isacco di Ninive, Prima collezione 65, in Id., Un’umile speranza, p. 204. [51] Isacco di Ninive, Prima collezione 71, in Id., Un’umile speranza, p. 203. [52] Isacco di Ninive, Prima collezione 74, in Id., Un’umile speranza, p. 194. [53] Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, p. 243. [54] Queste parole sono tratte da un hadith riferito a Abu Bakr: “Abu Bakr non è a voi superiore per le sue preghiere o i suoi digiuni ma per qualche cosa che ha preso posto nel suo petto” (cit. in F. Skali, “Introduzione”, in Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, p. 10). [55] Cf. Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, p. 152. [56] Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, p. 180. [57] L’opera che al-Sulami scrisse su questo argomento è ‘Uyub al-nafs wa-mudawatuha (Le malattie dell’anima e i loro rimedi). Per i riferimenti alla traduzione italiana, cf. n. 4. [58] Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, p. 179. [59] Detti dei padri del deserto, Serie sistematica greca XI,103 (= Serie anonima N 272), in I padri del deserto, Detti. Collezione sistematica, a cura di L. d’Ayala Valva, Qiqajon, Magnano 2013, p. 372. [60] Isacco di Ninive (gr.), Discorsi ascetici 38, in Saint Isaac le Syrien, Discours ascétiques. Selon la version grecque, a cura di P. Deseille, Monastère Saint Antoine le Grand-Monastère de Solan, Saint Laurent en Royans 2006, p. 290. [61] Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, p. 255. [62] Questo è ciò che al-Sulami fece scrivendo l’opera Kitab bayan zalal al-fuqara’ wa-adabihim (Il libro che spiega gli errori dei poveri [= i sufi] e la loro condotta), dalla cui ultima pagina questa frase è tratta (Sulamī, I sūfī e i medievali peccati, p. 132). È un testo di eccezionale profondità spirituale. [63] Cf. Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, p. 242. [64] In siriaco il monaco è per lo più designato con la parola ihidaya, che letteralmente significa appunto “solitario”. [65] Cf. Sulamī, Le buone regole della compagnia, p. 73. [66] Ibn al-Husayn as-Sulamì, Il libro della cavalleria, p. 188. |
|